Massimo Ferrari, Presidente Assoutenti/UTP risponde a Moretti

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LE LINEE FERROVIARIE LOCALI SONO UN PATRIMONIO NAZIONALE E NON UNO SPRECO DI RISORSE

 

Dopo la crisi petrolifera degli anni Settanta era praticamente cessato anche in Italia lo stillicidio di chiusure che aveva colpito le ferrovie secondarie nel decennio precedente. Semmai, avevamo assistito a qualche riapertura (spesso ottenuta al prezzo di costose ricostruzioni) per ovviare agli evidenti errori del passato.
Così, tanto per citare qualche caso, la Casalecchio-Vignola e la Saronno-Seregno sono state ripristinate a beneficio delle aree metropolitane di Bologna e Milano rispettivamente, la linea della Val Seriana è stata recuperata come tranvia veloce da Albino a Bergamo, mentre il successo della nuova Merano-Malles ha potentemente favorito la valorizzazione turistica della Val Venosta.
Negli ultimi tre anni, tuttavia, è ripresa in misura molto preoccupante la cessazione del servizio ferroviario su parecchie linee periferiche, seppur mascherato dietro le fuorvianti classificazioni di “sospensione” o “interruzione temporanea”. Clamoroso il caso della Regione Piemonte che, a metà del 2012, ha scelto di sospendere la circolazione dei treni su ben 14 tratte (pari ad un quarto della rete subalpina!) per recuperare somme (per altro irrisorie: si parla di circa 8 milioni di euro) destinate a tamponare le falle di bilancio provocate da ben altri sprechi.
Ma anche in Abruzzo, in Campania ed in Calabria si è assistito ad uno stillicidio di “sospensioni”, mentre in Friuli (Sacile-Gemona) ed in Sicilia (Caltagirone-Gela) guasti subiti dall’infrastruttura hanno fornito il pretesto per l’interruzione “sine die” del servizio. Nel Lazio, tra Roccasecca ed Avezzano, addirittura Rfi ha invocato la mancanza di fondi per l’ordinaria manutenzione (che contrattualmente dovrebbe essere a carico dell’azienda) per sospendere l’esercizio.
Allo stato attuale, pertanto, circa 1.300 chilometri di linee (in gestione a Trenitalia, alla Sangritana ed alle Ferrovie della Calabria) risultano “sospese”. Se tale condizione, come è lecito temere, divenisse definitiva, significherebbe che quasi il 10 per cento del patrimonio ferroviario nazionale risulterebbe sacrificato, reiterando così gli errori compiuti mezzo secolo addietro, poi da (quasi) tutti deprecati (a parole).
Stavolta, però, mancano persino gli alibi che, nel periodo della corsa alla motorizzazione, avevano in qualche modo giustificato quelle scelte.
Nessuno oggi crede ancora che l’auto possa assolvere ad ogni esigenza di mobilità locale: inquinamento, infortunistica e congestione stradale hanno evidenziato i limiti della motorizzazione individuale, mentre proprio la crisi economica induce molte famiglie a ridurre e talora a rinunciare del tutto alla propria vettura.
Parimenti, nessuno può decentemente sostenere che l’autobus costituisca una valida alternativa alla rotaia (per la verità, insiste su questa tesi, speriamo solo per dovere d’ufficio, il presidente di Anav, Biscotti): l’esperienza ha dimostrato come, dove il treno ha cessato di circolare, il numero di passeggeri sulle autocorse sostitutive, nel giro di pochi anni, si è ridotto al lumicino, determinando in pratica la rinuncia al servizio pubblico (non però ai contributi sprecati per far girare bus praticamente vuoti!).
E nemmeno si teorizza una “potatura dei rami secchi”, come a metà degli anni Ottanta ai tempi del ministro Signorile: il risanamento del bilancio del gruppo Fs si è già realizzato grazie alle nuove tecnologie che hanno consentito di dimezzare il numero dei dipendenti, mentre le linee ad alta velocità hanno riproposto la centralità del treno (a prezzi di mercato) tra i grandi centri della penisola.
Non pago di questi risultati, tuttavia, l’ing. Moretti, AD del Gruppo Fs, dichiara che “bisogna eliminare le operazioni a pioggia: nei grandi centri si va in treno, nei piccoli in pullman” (più corretto sarebbe dire “in auto”, visto che il bus sostitutivo non sembra esercitare alcuna attrattiva su potenziali clienti).
L’affermazione è apparentemente logica, ma in realtà pericolosamente fuorviante: cosa significa perorare l’uso del treno verso i “grandi centri”, dove le linee afferenti ai principali nodi sono insufficienti (pensiamo, ad esempio, a Palermo) o ancora inadeguate ad assorbire il traffico (come nel caso di Roma). E quali sono i “piccoli centri” che dovrebbero rinunciare al treno? Quelli sotto i 5.000 abitanti, o forse sotti i 20.000, o, magari, gli stessi capoluoghi di provincia “minori”?
Questo in pratica significa perorare la chiusura di altre linee locali (quante? Un quarto della rete? O magari un terzo?), senza, per altro, avere le risorse per convertire alla rotaia tutto il traffico diretto verso le aree metropolitane (che, in un Paese densamente urbanizzato come l’Italia, tendono talvolta a sovrapporsi: dove finisce l’area di attrazione di Torino e dove comincia quella di Milano?). Contravvenendo, oltre tutto, al proprio ruolo di gestore, per cui sono semmai le Regioni a decidere quali collegamenti finanziare.
Orbene, potremmo convenire con Moretti sul fatto che, se il vettore ferroviario facesse solo ora la propria comparsa nel mondo dei trasporti (come sta avvenendo, ad esempio, nella penisola arabica), varrebbe la pena investire unicamente nei collegamenti veloci e nei servizi pendolari attorno alle grandi città. Ma il punto è che le linee locali esistono (grazie ai sacrifici dei nostri avi), sono ampiamente ammortizzate (e nemmeno avrebbe senso esigere gli esosi canoni di utilizzo previsti da Rfi, esattamente come l’Anas non impone pedaggi per l’uso delle strade statali ) e sono perfettamente integrate nel paesaggio. Il loro costo è, dunque, puramente marginale (già molto contenuto, visto l’impresenziamento di quasi tutte le stazioni) ed ulteriormente comprimibile (molti treni locali potrebbero circolare con il solo conducente a bordo, esattamente come un autobus, ma svincolati dalla congestione viaria).
E allora, perché non sfruttarne le potenzialità, talvolta davvero notevoli, come dimostrano le migliori esperienze estere ed anche qualche virtuoso caso nazionale (vedi la Foggia-Lucera, riaperta da qualche stagione con successo dopo mezzo secolo d’abbandono)? Forse per fare un favore alle 1.400 imprese di trasporto su gomma, che potrebbero essere accorpate – seguendo una logica di effettiva razionalizzazione -in una ventina di aziende regionali, come ha proposto il segretario della Uil Angeletti? O magari per evitare a qualche governatore regionale lo sforzo di potare altre voci di bilancio, di cui però beneficiano gli amici degli amici?
 
                                                                                                             Massimo Ferrari
                                                                                                     Presidente Assoutenti/Utp
                                                                                               (Ass. Utenti del Trasporto Pubblico)